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lunedì 22 ottobre 2012

"Il caffè delle donne", l'esordio narrativo di Widad Tamimi. L'intervista di Fattitaliani: "L'aroma del cardamomo rievoca ricordi e allarga i confini"

«Ogni casa mediorientale ha due salotti: uno per la famiglia, più informale, dove si raccolgono le donne quando ci sono ospiti; un altro per gli uomini e gli ospiti d'onore. Il salotto domestico è il più accogliente: lì si svolge la vita vera, le mamme allattano i figli, si mangia e si ride tutti insieme e, nell'intimità  familiare, le donne si svelano. Lì, la mattina verso le undici, c'è il 'caffè delle donne'»: è il ricordo più intenso fra le estati passate in Giordania di Widad Tamimi, 31enne autrice del libro che s'intitola appunto "Il caffè delle donne" (Mondadori, pagg. 295, €17,50) romanzo d'esordio di una scrittrice nata in Italia, ma figlia di un profugo palestinese fuggito dall'occupazione israeliana del 1967 e di una donna di origini ebree. Protagonista una giovane alter ego, Qamar, figlia di un dottore emigrato in Italia, che cresce nella Grande Casa sulla collina della famiglia paterna in Giordania dove assiste ai rituali per la preparazione del matrimonio della cugina Lubna.

De "Il caffè delle donne" quale ricordo affiora primo fra tutti?
Il salotto in cui le donne della Grande Casa si incontravano. Da bambina Qamar, la protagonista, trascorreva le sue estati dalla famiglia paterna ad Amman. Ogni mattina le donne si incontravano per la lettura dei fondi di caffè. Sedevano e chiacchieravano della vita, dei figli, dei sogni e del destino, avvolte dall'aroma del cardamomo.
Narrando la storia di Qamar, in quali particolari passaggi la sua vita coincide con la sua personale vicenda?
La storia è nata sulle basi di mie esperienze personali: la perdita di un figlio che aspettavo, ed i ricordi dell'infanzia in cui ho cominciato a scavare alla ricerca di una ricetta per trasformare una perdita in una crescita. Poi, il percorso ha preso una sua strada. I personaggi hanno cominciato ad avere una vita propria, ma ne rimangono le sensazioni, i ricordi delle luci e dei profumi, che sicuramente provengono dalle memorie che conservo di Amman, dove ho realmente vissuto le mie estati da bambina.
Che effetto fa la scrittura sulle proprie esperienze? Le allontana, le cristallizza o le enfatizza?
Le arricchisce, direi, attraverso i tre effetti che lei cita. Le allontana nel senso che permette di prendere le distanze rispetto al proprio vissuto personale e questo offre l'opportunità  di osservarle dall'esterno, scoprire un nuovo lato di quel che si vive. Le cristallizza, anche, perché per esporle bisogna semplificarle, un po' come si fa quando si cattura un'immagine con una fotografia: non si vede tutto quello che sta attorno, non se ne vede lo svolgimento, ma una foto permette di andare a fondo, concentrarsi sui particolari. Le enfatizza, a momenti, perché il processo di scrittura richiede uno sforzo emotivo grande: a volte bisogna toccare il fondo delle proprie sensibilità, perché possano esprimersi con passione e arrivare così al cuore dei lettori. Ed è così che una volta finito un libro ci si sente un po' cresciuti.
Chi è stata la prima persona a sostenerla nella scrittura e nel progetto editoriale?
La prima persona a sostenermi nella scrittura è stata la mia maestra delle elementari, Paola, che ho amato moltissimo. Al progetto editoriale mi ci sono avvicinata un po' per gioco, senza mai mettere a fuoco l'idea che avrei scritto e concluso un romanzo. Ho cominciato con tre concorsi letterari e, dopo averli vinti tutti e tre (con mia grande sorpresa!), Giulia Ichino della Mondadori si è interessata a quella che era la base dell'attuale romanzo, con cui vinsi, appunto, il mio terzo concorso letterario. Giulia è stata fondamentale nell'incoraggiarmi, le devo moltissimo, perché è stata una bella esperienza.
Attraverso Qamar che cosa si augura per i rapporti fra Oriente e Occidente?
Allargo i confini: cosa mi auguro per questo mondo? Mi auguro che la curiosità  e il desiderio di pace permetta ai popoli di trovare vie di dialogo. Il che non vuol dire necessariamente essere amici o comprendersi, ma rispettarsi e tollerarsi. Può sembrare un'utopia, ma meno di un secolo fa nessuno avrebbe pensato possibile il progetto europeo, ed oggi invece l'Europa esiste, gli studenti viaggiano con i vari progetti di scambio e i lavoratori si muovono in libertà. I confini dovrebbero dividere nella ricchezza delle specificità, e non creare rigide separazioni.
Abituata sin da piccola a incroci e incontri di più culture, crede che prima o poi noi italiani impareremo ad avere una mentalitàà multiculturale più radicata e accogliente?
Certo che si può, ma bisogna investire su progetti di questo genere. L'Italia non si è creata da sola. I governi devono sostenere queste ambizioni, a partire da dichiarazioni più aperte all'integrazione, da programmi scolastici che stimolino la conoscenza reciproca, da leggi che accolgano le seconde generazioni come una ricchezza. Giovanni Zambito.
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