La
Jugoslavia capitola in 7 giorni nell’aprile del ’41. Hitler mette
in campo poche divisioni, gli italiani sono al seguito. La
spartizione del territorio prevede alcune annessioni e due stati
collaborazionisti, la Serbia sotto l’egida tedesca e la Croazia
degli Ustascia protetta dai fascisti. Nei territori annessi
all’Italia, la Dalmazia, parte della Slovenia e il Montenegro, i
fascisti costruiscono un sistema di governo complesso sotto la regia
dello stesso Ciano, ministro degli esteri. L'idea è di sviluppare un
occupazione morbida collaborando con le elites politiche ed
economiche locali. Un altro pilastro del sistema è la Grande Albania
già da tempo nell’orbita italiana. Iniziano i due anni di
occupazione che si concluderanno il 25 luglio 43 quando il regime
fascista svanisce travolto dalla tragedia della guerra.
Li racconta
Eric Gobetti, giovane studioso del fascismo e della Jugoslavia con un
libro “Alleati del nemico” (Laterza, 164 pagine, 19 euro) frutto
di una ricerca sul campo lunga 12 anni. Gobetti ha scandagliato
centinaia di documenti, libri e memorie per scrivere questo saggio
che non è il primo che dedica all’argomento. Lo muove l’ambizione
di raccontare con ordine e precisione un capitolo ancora oscuro
dell’imperialismo fascista, zeppo di protagonisti e comprimari,
alleanze ambigue, esecuzioni sommarie, cambi di campo. L’avventura
balcanica dei fascisti parte subito male. Il progetto iniziale si
liquefa in pochi mesi. L’indipendenza del Montenegro si rivela un
fallimento e così l’unione dinastica tra i regnanti croati e i
Savoia. Dal canto loro gli Ustascia di Ante Pavelic dilapidano
immediatamente il tesoretto di consenso attraverso una dissennata
persecuzione di rom, ebrei e soprattutto di serbi. Esecuzioni,
deportazioni e campi di concentramento diventano una triste realtà
quotidiana. Gli Ustascia hanno il sostegno morale della chiesa croata
e del Vaticano, non di rado, sacerdoti cattolici li affiancano nei
massacri. Alla fine, nei 4 anni di occupazione, saranno 500.000 i
serbi uccisi. Tra gli italiani, la truppa non di rado aiuta queste
minoranze, ma a Zagabria i vertici fascisti appoggiano
entusiasticamente Pavelic.
La
pacificazione dell’area si rivela un miraggio, alla fine del 41
tutti i territori sono in rivolta. La resistenza ha diverse anime, la
più solida è quella comunista. Una volta che l’invasione
dell’Urss da parte di Hitler scioglie l’equivoco del patto
Molotov-Ribbentrop. Josip Broz detto Tito non ha più remore a
chiamare i suoi alle armi. Ma a prendere le armi ci sono anche i
cristiano-ortodossi e i tradizionalisti serbi e montenegrini. Proprio
in Montenegro i partigiani comunisti cacciano i fascisti che lasciano
sul campo almeno un migliaio di soldati e 3000 prigionieri. Parte una
repressione durissima. Giuseppe Bastianini, responsabile del
Governatorato della Dalmazia, da il via ad arresti, rastrellamenti,
esecuzioni capitali. Il Montenegro viene rioccupato dal generale
Pirzio Biroli a capo di un’armata di 70.000 individui. Anche il
rapporto tra fascisti e Ustascia si va deteriorando, più in generale
la strategia di cogestione del potere con i locali viene abbandonata
a favore di una militarizzazione forzata del territorio. Al massimo
si stabiliscono collaborazioni militari con alcune bande armate
locali, in particolare con i serbi che distaccandosi dalle fila della
resistenza in funziona anticomunista, nazionalista e monarchica danno
vita alla formazione dei Cetnici. Guidati dal generale Mihailovic e
fautori di un grande stato serbo su base etnica, i Cetnici danno la
stura ad una guerra civile che dalla fine del 41 vedrà su due fronti
contrapposti collaborazionisti e partigiani comunisti di Tito,
diventati ormai il vero centro del movimento di liberazione
jugoslavo. Al dramma dell'occupazione militare straniera si somma
così un altro dramma anch'esso gonfio di odio e di violenza. Anche
se non mancano travasi di uomini da un fronte all'altro, Cetnici e
partigiani si odiano visceralmente, con i primi che pagano un forte
dazio con la popolazione per la ferocia esercitata sui civili (dalla
quale invece Tito saggiamente si astiene) e per la sostanziale
ambiguità che li accompagna, da un lato, collaborazionisti con gli
occupanti, dall'altro, dichiaratamente appartenenti al fronte
occidentale antifascista.
Questo
nuovo complicato scenario brucia le grandi ambizioni del Regime. I
Savoia perdono ogni interesse, il grande capitale italiano abbandona
l'area, la resistenza è diventata pericolosa, il risultato è che la
ex Jugoslavia è solo un onere finanziario per l'Italia. All'alba del
42 è l'esercito a governare gran parte del territorio, sale invece
la sfiducia verso gerarchi fascisti e amministratori civili. In
Montenegro comanda il generale Pirzio Biroli, a Lubiana il generale
Mario Robotti, solo in Dalmazia resiste il governatore Giuseppe
Bastianini. Sull'intero fronte l'esercito impiega 300.000 unità, il
doppio rispetto all'anno precedente. Il grosso appartiene alla II
armata guidata dal generale Mario Roatta che da il via a importanti
operazioni antiguerriglia votate però a un sostanziale insuccesso.
E' in questo contesto che Roatta emana la famosa Circolare C che
autorizza i soldati italiani a praticare una politica di terrore
anche contro i civili: il risultato sono oltre 100.000 persone
internate nei campi, centinaia di fucilazioni e una distruzione
sistematica del territorio, che porterà all'inedia di massa e al
diffondersi delle malattie. Sono questi gli scogli sui quali andrà
ad infrangersi lo stereotipo del "buon soldato italiano"
che per anni abbiamo accarezzato per rimuovere le nostre
responsabilità belliche. In realtà i militari italiani sono
intoccabili, autorizzati a qualunque abuso. E lo saranno anche nel
dopoguerra, quando le autorità italiane si rifiuteranno di
consegnare 750 individui di cui la Jugoslavia chiedeva l'estradizione
per crimini di guerra. I generali inquisiti si difenderanno
sostenendo la presunta brutalità mostrata dai partigiani verso i
soldati italiani, ma Gobetti smonta questa giustificazione perchè
non ve n'è traccia nei documenti storici.
Ai
croati non è andata giù l'alleanza italo-cetnica, la diffidenza
sale al punto che Pavelic finisce per entrare nell'orbita dei
tedeschi che vantano mire sulla Croazia. D'altro canto il blocco
italo-serbo è quasi contro natura in quanto Mihailovic è in
sostanza il capo di un esercito in guerra contro l'Italia. Non a caso
i tedeschi gli danno la caccia. Lui, convinto che il conflitto
terminerà con una vittoria degli alleati anglosassoni, cerca di non
stringere troppo l'alleanza con gli italiani che comunque gli è
utile non solo in funzione anticomunista, ma anche per mettere in
atto una pulizia etnica nelle regioni serbe che porterà 65.000
morti. Insomma la confusione è tanta sotto il cielo jugoslavo. In
diversi casi gli italiani saranno corresponsabili dei massacri
cetnici, ma tra i soldati non mancano atteggiamenti di riprovazione.
D'altro canto Gobetti racconta come gli italiani si spenderanno per
sottrarre gli ebrei dalle grinfie tedesche e Ustascia, riuscendo a
salvarne 5000. La svolta si ha inizio '43 quando le sconfitte di
Stalingrado ed El Alamein cambiamo segno al conflitto. In Jugoslavia
gli italiani decidono di ripiegare e di restringere il fronte sotto
il loro controllo. I partigiani di Tito vincendo la battaglia della
Nerevtna nel marzo sfuggono all'accerchiamento tedesco, sbaragliano i
Cetnici e mettono una seria ipoteca sulla vittoria finale. Del resto
la popolazione è dalla loro parte: studenti, operai ma anche
contadini dimostrano di preferire la multietnica e
pluri-confessionale Jugoslavia comunista di Tito piuttosto che una
grande Serbia etnicamente pura. Dopo il 25 luglio e la fine del
Fascismo gli italiani sono come compressi in un limbo, quando arriva
l'8 settembre e l'armistizio possono solo contare su se stessi. La
maggioranza cerca la fuga verso l'Italia, ma a frotte finiscono nelle
mani dei tedeschi, occasionali tentativi di resistenza si sviluppano
in Montenegro e a Dubrovnik, mentre una parte decide di passare nelle
fila della resistenza. Gli Ustascia combatteranno per altri due anni
accanto ai tedeschi, poi quando arriva il crollo Pavelic riuscirà a
mettersi in salvo grazie all'appoggio del Vaticano. La parola fine
cala su questo conflitto ambiguo dove, sottolinea Gobetti, "E'
difficile distinguere tra amici, nemici, avversari e alleati".
In fondo i soldati italiani hanno fatto il loro dovere anche se
accompagnati da un senso di impotenza, l'Impero fascista, invece, ha
fornito un'altra prova della sua evidente impreparazione. In cinque
anni di guerra gli jugoslavi hanno perso un milione di persone. Ma
soprattutto hanno maturato un odio verso di noi che già nel 43 da il
via alle prime Foibe.
Mauro
Scarpellini
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