Sono
passati più di cinquant’anni da quell’11 settembre 1962, quando
per la prima volta, in un memorabile radiomessaggio di Giovanni XXIII, fece irruzione l’espressione «la Chiesa dei poveri»,
mutuata, dal Beato di Sotto il Monte, dal card. di Malines-Bruxelles
Leo Joseph Suenens; non passarono molti mesi e il cardinale di
Bologna, Giacomo Lercaro, ispirato e sostenuto da don Giuseppe
Dossetti, pronunciava nella 35a Congregazione Generale del
concilio Vaticano II, il 6 dicembre 1962, un indimenticabile discorso
in cui affrontava vigorosamente «la povertà della Chiesa»,
ancorandola ad una robusta cristologia, e facendola assurgere a
chiave della identità ecclesiale, luogo teologico obbligante e
paradigma per il suo rinnovamento.
Quarantacinque
anni fa (1968), in Colombia, il CELAM (Conferenza Episcopale
Latinoamericana) celebrava la Conferenza di Medellin e nel 1971,
Gustavo Gutierrez, teologo peruviano, pubblicava “Teologia della
Liberazione” e fu così che il povero e i popoli crocefissi
iniziarono a guadagnare diritto di cittadinanza nella teologia,
affrancandosi da paternalismo e assistenzialismo e da quelle odiose
oggettivazioni, che ne fanno dei problemi, per transitare nelle aree
della soggettività cooperante, la quale ce ne restituisce volti e
nomi.
Anselmo
Lipari e Salvino Leone, nel loro «Quel grido dei poveri… La
rinnovata attenzione per la “scelta prioritaria” della Chiesa»,
edito da Abadir, a San Martino delle Scale, nel 2013 (prezzo €
13,00), attraverso sei passaggi tematici incastonati in una
introduzione e nelle conclusioni, arricchiti da una galleria di
schizzi tratteggianti i volti di alcuni rappresentativi santi della
carità, tentano di dar conto, in una chiave moral-teologica, della
“opzione preferenziale per i poveri”, ponendola nella dinamica
della sacramentalità e della fede vissuta e testimoniata nella vita
di santità.
Nelle
loro pagine compongono quella nefasta scissura tra teologia e
spiritualità, trovando che la via della perfezione evangelica, sta o
cade nell’esercizio vivente della diaconia della carità. La scelta
dei poveri e della povertà, -lungi da noi il pensare a un
banalissimo e fuorviante pauperismo-, non è per la Chiesa una
opzione tra le possibili, ma è la sua dimensione autentica ed
originaria «dal momento che la povertà sta al cuore stesso
dell’evangelo e la Chiesa non potrà mai essere discepola di Cristo
maestro se non segue le sue orme, se non segue la sua via Crucis»
(p. 13). Il povero, per dirla con il compianto don Tullo Goffi è «il
primo dopo l’unico»; è il sacramento di Cristo senza il quale non
c’è salvezza: questa la lezione, di mons. Oscar Romero, fin troppo
esorcizzata dalle opulente chiese occidentali, tant’è che possono
vantare un triste primato in termini di accumulo di ritardo nei
confronti del vangelo. Un ritardo che di certo è di gran lunga
superiore ai duecento anni sulla storia, perciò non è parsa per
nulla casuale quella affermazione di Papa Francesco a tre giorni
dalla sua elezione: «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri».
In
effetti occorreva Papa Francesco perché si rompessero dei tabù
nella Chiesa universale e nella Chiesa italiana, tra i tanti i due
Autori ne evidenziano uno, che tocca le fibre e la carne della nostra
Chiesa, e così ci riportano al viaggio e all’omelia di Papa
Francesco a Lampedusa. Omelia, non lo si dimentichi, che Alberto
Melloni, da grande storico qual è, non esitò a considerare come uno
dei grandi discorsi destinati a segnare l’ora nella storia della
Chiesa. In ordine ai fratelli migranti e al fare, prima che al dire,
di Papa Francesco i Nostri osservano: «Non tutti potranno fare
qualcosa per la tragedia degli immigrati disperati, morti in mare,
fuggiti dalle loro terre, privi di speranza, ma certamente tutti
possono avere un diverso atteggiamento nei loro confronti. Non
dimentichiamo che recenti provvedimenti legislativi nei cui confronti
la Chiesa è stata molto tiepida se non in totale silenzio
prevedevano i loro respingimenti in mare o il rientro in terre in cui
li aspettava il carcere duro o un futuro privo di ogni speranza. Dal
j’accuse del papa né i cattolici né la Chiesa nel suo
insieme sono immuni» (pp. 99-100, il corsivo è nostro).
Il
testo di Lipari e Leone, parla chiaro; parla alla fede e alla
ragione; va dritto al cuore e non permette che, in faccia al povero e
alla povertà, si torca il viso dall’altra parte.
Alfonso
Cacciatore
©
Riproduzione riservata
Nessun commento:
Posta un commento